La guerra vista da vicino
Salve, sono Simona e intervengo per condividere una bella esperienza vissuta. Dopo aver studiato la Seconda Guerra mondiale, la professoressa ha detto che sarebbe stato davvero bello se avessimo avuto la possibilità di intervistare qualche reduce di guerra, per ascoltare dalle sue parole la terribile e devastante esperienza della guerra. Certo più gli anni passano, meno possibilità avremo di poter intervistare i reduci di guerra. A me però, mentre la professoressa parlava, è venuto subito in mente zio Antonio. Antonio Belfiore è il fratello di mia nonna, è nato a Casoria il 19 marzo 1920 e ha combattuto la seconda guerra mondiale. Ho parlato con l’insegnante della possibilità di intervistare zio Antonio e lei, ovviamente, ne è stata entusiasta. Ho preparato subito alcune domande e sono corsa da zio per intervistarlo. Zio Antonio era emozionato; inizialmente si è limitato a rispondere in modo sintetico alle prime domande, poi, però, è stato come un fiume in piena: non sono riuscita più a porgli delle domande ma l’ho ascoltato parlare e raccontare. E’ stato davvero un momento emozionante. Sono contenta di condividere con voi il racconto di zio.
- Quanti anni avevi quando è iniziata la Seconda Guerra Mondiale? Avevo 20 anni.
- Come era la tua vita prima dello scoppio della guerra? Dove vivevi? Cosa facevi?
Facevo l’infermiere all’ospedale Scalesi. Poi, l’11 Marzo 1940, esattamente il giorno del mio ventesimo compleanno (perché io sono nato l’11, ma i miei genitori mi hanno dichiarato all’anagrafe sette giorni dopo) fui chiamato alle armi e andai a Roma per arruolarmi. Diventai carrista, cioè un soldato esperto nella guida di carri armati.
- Ricordi il momento in cui fu annunciato che l’Italia era in guerra?
Sì, il 10 giugno 1940, quando l’Italia ha dichiarato guerra alla Francia, io, come ho detto poco fa, stavo a Roma, a Castel Romano, nella quarta guarnigione. Me lo ricordo bene.
- Potresti raccontarmi il momento della tua partenza? Dove ti mandarono? Come ti sentivi?
Nel Settembre del 1940, partimmo per il fronte: furono richiesti 100 piloti dall’esercito. Ci chiamavamo piloti, come quelli degli aerei, perché il carro armato è come l’aereo: ci sono leve e comandi come nei caccia-bombardieri.Quindi da Roma andammo a Napoli, dove ci accampammo nelle caserme di via Marina. Ogni tanto ne approfittavo per tornare a casa e andare a trovare la mia famiglia.Da Napoli, partimmo per l’Africa. Salpammo dal porto, di notte, e arrivammo a Palermo il giorno dopo, poi da lì giungemmo in Libia, prima a Tripoli, poi a Bengasi ed infine a Derna dove sbarcammo per raggiungere il reggimento dell’esercito italiano.Partecipai alla guerra in Cirenaica che fu condotta con gli aerei, con le navi, tra i bombardamenti. Un disastro. Un giorno del gennaio del 1941, mentre guidavo il carro armato, il mio superiore, il capocarro, mitragliò un autoblindo inglese e facemmo prigionieri i soldati che erano al suo interno. Alla fine di febbraio dello stesso anno, gli inglesi fecero prigioniero me. Fummo accerchiati da due divisioni, una inglese ed una canadese. Prima di essere imprigionati, subimmo un bombardamento aereo e navale. Si sparava dovunque: dalle navi, dagli aerei, dai cannoni dell’artiglieria che combatteva a terra. Noi facevamo delle buche per nasconderci e per proteggerci quando sentivamo i primi boati.Ce la siamo visti veramente brutta. Durante questo bombardamento, decidemmo di fuggire verso il mare: ero insieme ad un tenente medico ed altri 4 o 5 soldati.Camminammo per giorni a piedi, lungo la costa del mare e non avevamo niente da mangiare: raccoglievamo le scatolette di carne vuote che trovavamo per strada e leccavamo grasso che era rimasto al loro interno. Non avevamo neanche niente da bere perché l’acqua delle nostre borracce finì presto e soffrivamo la sete. Il quinto giorno ci fermammo a riposare sotto un albero poco lontano dal mare e misi la baionetta nella sabbia. Quando la tolsi, mi accorsi che era bagnata: cominciammo a scavare e trovammo acqua dolce, l’acqua del mare che la sabbia aveva filtrato. Fu una grande gioia. Dopo aver riempito le nostre borracce, riprendemmo il cammino.Superata una duna di sabbia, ci accorgemmo che c’erano degli inglesi in lontananza. Ci stendemmo a terra per nasconderci, ma loro ci avevano già avvistati e ci raggiunsero con una camionetta.Io avevo una pistola calibro 9 e una baionetta: sotterrai la pistola e misi un fazzoletto bianco sulla canna del fucile e la sventolai in segno di resa. Così loro ci fecero salire sull’automezzo senza farci alcun male.Mentre viaggiavamo, vedemmo una gazzella: dopo aver chiesto il permesso agli inglesi di usare il mio fucile, le sparai e così la caricammo sulla camionetta per poterla mangiare dopo. Mentre ci dirigevamo nel campo, un soldato inglese mi disse: “War no good! Mussolini no good! Churchill no good!”. Io non capivo l’inglese e lui non capiva l’italiano, però riuscivamo a comunicare con i gesti. Mi voleva dire che Mussolini e Churchill parlavano soltanto e si prendevano i meriti di una guerra che combattevamo noi. Mi mostrò la foto della moglie e della figlia e mi fece capire che non era giusto che noi dovevamo combattere e soffrire senza le nostre famiglie per i potenti. La guerra non è buona per nessuno. Nell’accampamento restammo due o tre giorni: dormivamo su un camion scoperto sul quale però avevano montato un telone per proteggerci dall’umidità perché in Cirenaica di giorno fa molto caldo e di notte si gela. Poi ci portarono ad Alessandria d’Egitto. Non mi dimenticherò mai del caldo che soffrimmo in quel posto. Una sera, avevamo molta sete ma non potevamo raggiungere la fontana del campo perché c’era una sentinella che sparava a vista. Allora sorteggiammo chi di noi sarebbe dovuto andare a prendere l’acqua per tutti: sarebbe andato chi, tra vari bastoncini, avesse preso il più piccolo. E toccò a me. Mi caricai cinque borracce addosso e mi diressi alla fontana. Lì incontrai un inglese che, però, era ubriaco e non si accorse di me, così riuscii a riempire le borracce e a tornare indietro. Ma mentre stavo scappando, la mia camicia si impigliò in un reticolato e se non fossi riuscito a liberarmi, la sentinella mi avrebbe avvistato e sparato. Alla fine riuscii a tornare dai miei compagni con l’acqua. Dopo una ventina di giorni, ci portarono a Suez e lì salimmo su un transatlantico olandese che si chiamava “Amsterdam”, dove ci diedero da mangiare solo una fettina di pane, una fettina di mortadella e due foglie di insalata. Il mattino dopo salimmo su un’altra nave, più piccola, sulla quale attraversammo l’Equatore, passammo per l’Oceano Indiano e arrivammo a Durban, in Sud Africa. Lì ci misero su un treno che ci portò in una città dove c’erano sette campi ed ogni campo aveva duemila persone. Io ero nel settimo blocco. Mentre mio fratello Giulio che combatteva la guerra in Africa sud-orientale, fu fatto prigioniero in Sudan e portato al sesto blocco. Io chiesi al tenente medico di passare lì per stare con mio fratello e un soldato del sesto blocco passò nel settimo per incontrare i suoi paesani: dovevamo fare così perché la sera avrebbero fatto la conta dei soldati. Io avevo seicento lire nella tasca e le diedi a mio fratello sperando che almeno lui potesse portarle a nostra madre: lui, infatti, era comandante del suo blocco, aveva un suo ufficio e aveva istituito pure una piccola compagnia teatrale di soldati. Aveva più speranze di tornare a casa. Dopo un anno, ci diedero l’ordine di partire e lo dissi a mio fratello. Allora lui si fece mettere nell’elenco di coloro che dovevano partire, per stare con me, ma la fortuna volle che partisse prima lui. Quando arrivò a Durban, però, aspettò che vi arrivassi anch’io. E così partimmo insieme per l’Inghilterra. Andammo a Douglas, in Scozia, entrammo a far parte del gruppo della polizia militare che si occupava di smistare i soldati che giungevano dall’Africa e dall’India per mandarli a lavorare i campi nei vari paesi britannici. Dopo un po’, mi dovetti separare da mio fratello perché mi mandarono in un campo in Inghilterra, dove fui accolto da una famiglia inglese: e lì trovai proprio l’America anche perché era il 1942 e l’Italia dichiarò guerra alla Germania. Così ci fecero cambiare le divise e da prigionieri diventammo alleati.
Un grazie speciale per il suo prezioso intervento al signor Antonio Belfiore dalla nostra professoressa e da tutta la III F
Il lavoro sulla Seconda guerra mondiale non è finito qui. In allegato troverete le fasi principale della guerra in una presentazione in power point.
Simona Fiorillo IIIF